Memoria |
Memoria (1) La storia dello studio della memoria in psicologia è caratterizzata da importanti scoperte, ma anche da profonde incomprensioni tra studiosi di orientamento differente. Alla fine dell'800, la memoria costituì uno dei campi d'illustrazione della produttività di un approccio sperimentale ai fenomeni della mente. L'intuizione di H. Ebbinghaus di usare nella sperimentazione un materiale da memorizzare semplificatissimo (sillabe formate da due consonanti e una vocale, con l'esclusione di suoni dotati di significato) consenti infatti di sganciare l'osservazione delle dinamiche della memorizzazione «pura», cioè dovuta principalmente all'azione della ripetizione, dalle capacità di memorizzazione per associazione con significati precedentemente appresi. In questo modo, Ebbinghaus individuò alcune leggi basilari di funzionamento della memoria, che si sono dimostrate stabili e generalizzabili. La sua creatività metodologica aprì uno spazio importante all'approccio sperimentale; ma allontanò questo studio «scientifico» della memoria dalla quotidianità dei fenomeni. Fin dagli inizi della psicologia, si è dunque manifestata, negli studiosi più attenti, non solo una comprensibile ammirazione per le possibilità di applicazione del metodo sperimentale, ma anche una preoccupazione nel coniugare il rigore metodologico con la validità ecologica degli studi. Questo secondo filone si è basato principalmente sull’autoosservazione e sull'osservazione di casi particolari: come quelli di persone con memorie eccezionali o che, al contrario, risentivano di particolari sofferenze o patologie. Possiamo far risalire a quest'approccio gli studi collegati alla corrente clinica, poi diramatasi nel fondamentale apporto della psicologia dinamica, che ha cambiato il modo stesso con cui si pensa oggi alla mente e, di conseguenza, alla memoria, non solo per quanto riguarda le situazioni patologiche ma anche per fenomeni apparentemente banali, quali sogni, dimenticanze, atti mancati, lapsus, in sintesi tutta la vasta trama della «psicopatologia della vita quotidiana». A questo stesso approccio risalgono inoltre l'importante corrente descrittivo-classificatoria inaugurata dalle riflessioni pionieristiche di F. Galton, di Th. Ribot e, soprattutto, la rivoluzione introdotta dai metodi anticonvenzionali proposti da F. Bartlett (1932). Con il suo metodo di confronto tra riproduzioni ripetute di uno stimolo, spesso difficile da comprendere perché estraneo alla cultura dei partecipanti alle sue ricerche, Bartlett mise in luce un fenomeno di convenzionalizzazione e di riduzione del ricordo entro schemi familiari che, da descrizione del funzionamento della memoria a lungo termine, doveva divenire in seguito una pietra miliare dello studio di tutta la costruzione attiva della conoscenza. In Russia, in quegli stessi anni, L. Vygotskij sviluppava il suo pensiero in un drammatico isolamento. Alla sua morte, egli avrebbe lasciato una traccia di ricerca, ancora oggi in parte inesplorata e insuperata, sulle intermediazioni che potenziano il controllo volontario, sia personale che sociale, sulla memoria. Nei decenni successivi, la corrente principale degli studi sperimentali - basata sull'osservazione della memorizzazione in laboratorio di materiale molto semplice - si ampliò e rafforzò ulteriormente, consentendo di produrre modelli applicabili anche alla simulazione tramite computer, aumentando in tal modo considerevolmente il valore applicativo dell'approccio cognitivo. Ma questo filone di studi sperimentali era spesso lontano dagli usi concreti della memoria nella vita quotidiana; si rafforzava quindi l'esortazione a integrarne l'importazione con l'osservazione in ambienti naturali. E’’ esemplare al proposito la vicenda degli studi sulla memoria autobiografica. Inserita implicitamente nelle prime osservazioni dell'inizio del '900, in cui ancora non era chiaro che la funzione di memoria si componeva in realtà di molte memorie diverse, di memoria autobiografica fu espulsa ben presto, e per oltre cento anni, dalla corrente principale degli studi d'impronta strettamente sperimentale. Ricomparve all'attenzione solo negli anni '70 del '900, e non a caso con ricerche che riprendevano l'approccio descrittivo-classificatorio degli inizi del secolo. Oggi, le due anime - sperimentale e di osservazione della vita quotidiana - dello studio della memoria lavorano ancora appaiate, mentre la raccolta amplissima di dati, dall'uno e dall'altro versante, ha reso chiaro che la memoria va distinta in campi di studio differenziati e oramai nettamente specializzati. Partiremo da una definizione unitaria di memoria, analoga all'uso di questo termine nel linguaggio quotidiano, per delinearne in seguito i molteplici sviluppi di ricerca, arrivando a comporre un quadro d'insieme, che mostri come la memoria integri tra loro processi molto differenziati che contribuiscono, congiuntamente, a formare una trama connettiva - per molti aspetti ancora inesplorata - tra percezione, immaginazione e pensiero. Definiamo dunque provvisoriamente la memoria come la capacità della mente di recuperare informazioni con cui è venuta in contatto in passato, non più presenti alla sua percezione. Da un lato, essa è la riattualizzazione di un'esperienza passata. In quanto tale, è valutabile in termini di fedeltà (somiglianza tra le caratteristiche del ricordo e le caratteristiche dell'esperienza passata) e di accuratezza (numero di dettagli fedeli che rendono il ricordo più o meno particolareggiato). Nel giudizio soggettivo con cui la mente esamina i suoi stessi processi, queste valutazioni concorrono, insieme con altre associate (la vividezza dei dettagli rievocati; la loro saturazione sensoriale, cioè la sensazione di potere quasi rivedere, riudire; la facilità e la velocità nel recupero, ecc.), a fondare una sensazione di maggiore o di minore fiducia soggettiva nella bontà del ricordo stesso. D'altro canto, l'informazione non è più presente nel campo percettivo attuale, e quindi la memoria è un'attività di ricostruzione di elementi assenti. In quanto tale, è valutabile per la sua capacità di cogliere gli aspetti essenziali, il succo, di quello che sta cercando di ricreare. Nel giudizio soggettivo della mente, ciò dà vita alla sensazione di stare compiendo, con maggiore o minore successo, uno sforzo verso il significato dell'informazione originaria. I dati empirici inducono a considerare i nostri ricordi composti sia da aspetti di copia, sia da aspetti di ricostruzione (Brewer, 1995). Tuttavia, le teorie sulla memoria cercano spesso di ridurne la complessità. I modelli focalizzati sulla funzione «copia» privilegiano gli aspetti di riattualizzazione; i modelli focalizzati sulla funzione di comprensione del «succo», gli aspetti di ricostruzione. Questo differente modo di semplificare teoricamente il paradosso del legame tra il non più presente e il nuovamente presente, insito nei processi di memoria, ha dato origine a polemiche e incomprensioni tra approcci diversi. Una prima questione riguarda la direzione temporale della connessione operata dalla memoria tra processi mentali che avvengono in due distinti momenti di tempo. Nei modelli focalizzati sulla funzione «copia» della memoria si controlla quanta parte dell'esperienza passata sia recuperata nel presente: il procedere temporale della connessione va quindi dal passato al presente. Nei modelli sulla funzione di comprensione del «succo» si esamina invece il modo in cui la mente, con le sue conoscenze attuali, ricostruisce il nocciolo dell'esperienza passata: la direzione temporale del processo va dunque dal presente al passato. Inoltre, se la memoria è vista come una comprensione attuata con le risorse a disposizione della mente durante la rievocazione, in presenza di nuove informazioni essa può trasformarsi, da ricostruzione del già noto, anche in sorprésa, in improvviso insight sul passato. Una seconda questione aperta, strettamente connessa alla prima, riguarda le scelte di metodo. Nei modelli che vedono la memoria come una copia del passato, il metodo si basa sul confronto tra un elemento originale, spesso fornito e controllato dal ricercatore stesso, e la capacità successiva di riprodurlo in modo fedele. Ogni tipo di variazione costituisce dunque un errore. Nei modelli che considerano la memoria come una forma di comprensione del succo, del nocciolo del passato, il metodo si basa sull'analisi della qualità della ricostruzione, valutata nei termini della sua efficacia nel produrre un significato del ricordo, personalmente e socialmente utile e accettabile. Le variazioni sono dunque considerate erronee, solo quando distorcono fortemente il significato di quanto ricordato. Esiste quindi una polemica, sia teorica sia metodologica, sulla definizione della «validità» di una memoria (Ross, 1997). Una terza questione controversa parte dall'osservazione che spesso il compito di ricerca affidato ai partecipanti coincide con una descrizione consapevole dell'informazione passata. Ad esempio, potremmo far leggere alla persona una lista di parole, e poi vedere a distanza di tempo quante parole è in grado di rievocare liberamente, quante è in grado di rievocare con l'aiuto di indizi che guidino il recupero delle informazioni, quante infine è in grado di riconoscere, se le vengono presentate una seconda volta. Tuttavia, se lasciamo che la persona rievochi più volte liberamente, potremmo osservare che nelle ripetizioni successive alcune parole, prima sfuggite, riemergono. E’ il fenomeno della reminiscenza, già notato nelle classiche osservazioni di Ph. Ballard (1913) sul modo in cui alcuni allievi, memorizzando una poesia, ricordavano nella seconda o terza ripetizione parti omesse nella prima, cioè non accessibili ai primi tentativi di ricordo consapevole. Ciò contraddice l'idea semplificatoria che la capacità di rievocare decresca monofonicamente, di ripetizione in ripetizione. Proseguendo lungo questa stessa linea di pensiero, consideriamo ora il caso di un apprendimento che, eseguito inizialmente sotto il controllo consapevole della persona, si automatizzi grazie all'esercizio. In questo caso, mentre la performance migliora e può essere eseguita con sempre minore attenzione, dando spazio persino all'esecuzione parallela di altre attività, il comportamento sfugge sempre pili al controllo consapevole della persona. Consideriamo infine il caso del rapido aggravarsi dei sintomi fobici. Dopo un episodio apparentemente dimenticato di ansia, causata ad esempio dall'essere stati casualmente bloccati in ascensore, tali sintomi possono presentarsi inaspettatamente in situazioni assimilabili alla prima, come il dover sostare in stanze senza finestre, nella metropolitana, in treni e aerei, ecc. La persona si sente in tal modo costretta, in maniera per lei inspiegabile, a evitare un numero considerevole di situazioni, tamponando l'ansia ma riducendo in modo crescente la vivibilità della sua vita quotidiana. Questi diversi esempi contribuiscono a mettere in dubbio ogni semplificatoria sovrapposizione tra memoria e accesso consapevole al ricordo. Solo in alcuni casi, infatti, la persona è pienamente in grado di descrivere il suo ricordo e di valutarne l'impatto; in altri casi, invece, la memoria è implicita e può essere solo inferita indirettamente, tramite la modificazione che produce sul comportamento. E in effetti, i fenomeni di memoria osservati in laboratorio variano notevolmente a seconda dei cambiamenti, anche apparentemente minimi, nel tipo di compito assegnato ai partecipanti. Un caso particolare di compito sperimentale, che ha consentito l'emergere di un'altra profonda differenziazione nella funzione della memoria, consiste nell'uso di compiti doppi. Si tratta di una situazione in cui si chiede alla persona di prestare in primo luogo attenzione a un materiale; in seguito, mentre questo materiale è oggetto di una prima memorizzazione, si chiede alla persona di eseguire un secondo compito, che distoglie l'attenzione dal primo materiale presentato. La differenza di ricordo ottenuta sugli stessi stimoli, in situazione di compiti semplici o di compiti doppi, ha portato i ricercatori, alla fine degli anni '60, a ipotizzare la presenza di una memoria a breve termine, relativa alle operazioni compiute sulle informazioni al momento della loro prima entrata, e di una memoria a lungo termine, in cui passano solo alcune delle informazioni ricevute. Studi successivi hanno reso ulteriormente complessa questa prima visione multiprocesso della memoria. Si è così pensato che la prima forma di memoria, applicata durante la manipolazione degli stimoli, eseguisse già operazioni complesse, cui poteva fare o meno seguito un salvataggio degli stimoli stessi in una forma di memorizzazione permanente; un po' come accade nell'uso di un programma di computer, in cui la lavorazione dei dati può essere completata da un comando specifico che salva le operazioni effettuate sul disco rigido, oppure non essere conservata. La dizione «memoria di lavoro» è stata dunque proposta, a sostituirne della precedente dizione di memoria a breve termine, per sottolineare che questo primo magazzino momentaneo non è solo una specie di «anticamera» al passaggio verso una memoria più stabile, ma è al contrario esso stesso un sottosistema complesso (Baddeley, 1992). L'avanzamento della ricerca ha dunque permesso di differenziare In memoria di lavoro, finalizzata all'esecuzione di attività cognitive che richiedono il recupero di informazioni passate, da una memoria a lungo termine o permanente, in cui vengono inviate solo alcune informazioni selezionate, destinate a un salvataggio duraturo. Nasce a questo proposito l'interrogativo: come funziona il processo opposto, quello del non salvataggio o della perdita della traccia? Se appare plausibile che una parte importante dei ricordi sia salvata, anche a dispetto di una sua transitoria inaccessibilità, come nella reminiscenza, è anche chiaro che la nostra mente ha bisogno di disfarsi dei surplus di informazioni che quotidianamente la raggiunge. Spiegare come si dimentica fa dunque parte della fisiologia della memoria. Gli studi pionieristici di Ebbinghaus (1885) hanno permesso di illustrare il decadere nel tempo del materiale senza significato da lui memorizzato, se non più reiterato con l'esercizio, secondo l'andamento rappresentato nella sua famosa «curva dell'oblio». Ma non è possibile collegare l'oblio solo a questa funzione di decadimento temporale della traccia, perché le persone non vivono in un tempo vuoto, ma, anche quando permangono in uno stato di apparente inattività, sono sempre raggiunte da un flusso di informazioni provenienti sia dall'ambiente esterno, sia dalla loro stessa attività mentale. Molto spesso, in effetti, la non accessibilità di una traccia di memoria (qual è, in realtà, l'unica affermazione che possiamo validamente inferire dall'incapacità di richiamare consapevolmente un ricordo) può essere spiegata tramite l'interferenza di altre tracce, simili alla prima. Un esempio tipico di questo fenomeno è la difficoltà a memorizzare il nostro nuovo numero di telefono, perché il vecchio numero continua a sovrapporsi ad esso; o il non riuscire a ricordare il nome di un attore, che pure sentiamo di avere « sulla punta della lingua», mentre il nome chiaramente sbagliato di un altro attore continua a ripresentarsi, sebbene noi facciamo di tutto per scacciare questa rievocazione inutile. Una storia a parte dello studio della memoria potrebbe essere tracciata, raccontando i mille modi in cui le persone combattono l'oblio. M. Proust ha descritto in modo meraviglioso le emozioni contrastanti di chi riflette sulla sua possibilità soggettiva di andare alla ricerca del tempo perduto: tra lo sgomento per l'inanità degli sforzi di richiamare ricordi che sembrano ormai inaccessibili, e la sorpresa per il sorgere di un grappolo di memorie involontarie, innescate dal riconoscimento di una percezione lontana nel tempo (come l'odore della celebre madeleine). Se tutta l'opera letteraria di Proust prende le mosse dalla sorpresa poetica di una memoria involontaria, Vygotskij ha mostrato, con ricerche pionieristiche a lungo ignorate, l'altra faccia della sconfitta dell'oblio, dovuta alla «guida volontaria» delle proprie strategie di recupero. Nel periodo in cui I. Pavlov (1927) dimostrava la similarità nei processi di condizionamento dell'uomo e dell'animale, basata su una medesima forma di memoria associativa per stimoli elementari, Vygotskij (1938) riportava l'attenzione sul fatto che solo l'uomo è in grado, nei suoi processi di memorizzazione superiore, di indurre se stesso a ricordare. In una sua celebre citazione, egli usa, per rappresentare questa memoria esclusivamente umana, l'immagine di un «fazzoletto annodato», come esempio di guida per una memoria personale, ma anche di una « statua», riferendosi a quelle decisioni pubbliche che orientano la memoria dei gruppi e delle collettività. Vygotskij arricchiva così la classica prospettiva temporale diadica sulla memoria, vista come legame tra passato e presente, con la riflessione su quanto il ricordo umano sia in grado di orientare volontariamente anche i suoi processi futuri di recupero, con una strategia di mediazione tramite cui «ricordarsi di ricordare». In tal modo, Vygotskij non solo anticipò l'attenzione, solo da poco ridestata, sulla cosiddetta memoria prospettica, ma soprattutto sottolineò l'importanza di collocare i fenomeni psicologici umani nella loro cornice storica e culturale. In effetti, queste osservazioni conducono ad alcuni percorsi di approfondimento originali, ancora relativamente inesplorati. Il primo riguarda la migliorabilità sociale della memoria, cioè la sua capacità di essere orientata da intermediazioni fornite dall'ambiente sociale. Una preziosa rassegna storica a questo proposito è fornita dalla descrizione di F. Yeats (1966) sulle mnemotecniche, insegnate nei trattati dei retori dell'antica Grecia e della Roma classica, e presenti anche nei lavori successivi di famosi pensatori del Medioevo e del Rinascimento, fino al momento in cui la diffusione della stampa marginalizzò la necessità di tecniche di ampliamento della memorizzazione individuale. Una seconda riflessione, strettamente collegata, riguarda il rapporto tra i processi interni di memoria e le «protesi» esterne di memorizzazione (Bruner, 1990) elaborate da ogni cultura, nella consapevolezza della necessità della memoria umana di servirsi continuamente di «appoggi» esterni. La comprensione della funzione degli artefatti culturali creati a supporto della memoria interna - ieri la scrittura e la stampa, oggi l'informatica - avvicina lo studio psicologico della memoria umana al campo delle scienze sociali, storiche e culturali, cercando di comprendere la stretta interconnessione tra processi individuali e processi sociali di memoria. Anche questo tipo di approfondimento prende l'avvio da studi classici rimasti a lungo inesplorati. In particolare, lo studio delle dimensioni collettive della memoria è radicato nei lavori di M. Halbwachs (1950), che per primo ha intuito il ruolo dell'inquadramento sociale dei ricordi. In ogni atto di memoria, infatti, è, a suo avviso, prioritaria per chi ricorda la necessità di individuare la sua comunità principale, tra le molteplici collettività in cui può essere inserito. A partire da questo riconoscimento, legato secondo Halbwachs a considerazioni prevalentemente affettive, alcune memorie divengono attuali e significative, mentre altre rimangono ad un puro stato potenziale, da cui possono eventualmente «risvegliarsi» se il loro inquadramento sociale ritorna ad essere nuovamente centrale per il soggetto. L'accessibilità selettiva ad alcuni insiemi di ricordi e, soprattutto, l'azione sociale di ricordare insieme hanno dunque, secondo Halbwachs, la funzione di confermare la persona nella sua identità sociale attuale; ma agiscono contemporaneamente anche come una «corazza affettiva», per affrontare le difficoltà e le minacce incontrate nella propria vicenda personale e sociale (compresa quella dell'oblio). GIOVANNA LEONE Memoria (2) Per quanto ognuno intuitivamente comprenda il significato di memoria e di apprendimento, non è facile formularne le definizioni. Alcune di esse si basano su criteri comportamentali: ad esempio W. Thorpe definisce l'apprendimento come un processo che si manifesta attraverso cambiamenti adattativi del comportamento individuale in seguito all'esperienza; per N. Maier e Th. Schneirla l'apprendimento è la formazione di risposte ad aspetti limitati dell'ambiente; R. Tarpy ritiene che sia un cambiamento permanente del repertorio comportamentale dovuto all'esperienza. In queste definizioni, enunciati più o meno esplicitamente, vi sono il concetto che l'apprendimento è basato sull'esperienza individuale (quindi non della specie di appartenenza) e quello che l'apprendimento costituisce un processo, non un cambiamento istantaneo. Gli etologi aggiungono che l'apprendimento ha uno scopo. A questo punto bisogna osservare che lo sviluppo, un danno, la fatica, possono produrre cambiamenti comportamentali. Questi fenomeni devono ovviamente essere esclusi dalla definizione di apprendimento. A rigor di logica, esistono molti aspetti dell'apprendimento che non si traducono in modificazioni comportamentali (tesi, questa, negata dal behaviorismo radicale), conseguentemente si devono includere nelle definizioni dell'apprendimento anche «variazioni del potenziale conoscitivo» dell'individuo. Una definizione cognitivista è la seguente: «conoscenza organizzata che cresce e diventa meglio organizzata». Questa definizione presuppone la presenza di un bagaglio conoscitivo a priori. Per imparare, un organismo deve già conoscere molto. Un tentativo di definizione onnicomprensiva di apprendimento e di memoria è stato compiuto da Y. Dudai (1996). Se usiamo il concetto di conoscenza in termini elementari e prescindendo dai connotati antropomorfici di coscienza, intendendo piuttosto con questo termine un insieme ben strutturato di informazioni riguardo il mondo e in grado di mettere in atto il complesso delle reazioni dell'organismo, possiamo allora identificare il termine «conoscenza» con quello di «rappresentazione interna», vale a dire un corpus di informazioni codificato nel sistema nervoso centrale e che guida il comportamento. Alcune rappresentazioni interne sono relativamente semplici: ad esempio il circuito neuronale preposto alla flessione di un arto in risposta a uno stimolo dolorifico codifica le rappresentazioni interne di assenza di dolore o dolore di varia intensità e l'appropriato programma motorio. Di gran lunga più complesse sono le rappresentazioni di stati cognitivi. In ogni caso, qualunque sia la loro complessità, le rappresentazioni interne, in un modo o nell'altro, sono codificate in sistemi neuronali, determinano il comportamento e la percezione sensoriale e, quando si modificano, possono alterare la potenzialità alla reazione piuttosto che la reazione immediata allo stimolo. L'apprendimento può dunque essere definito come formazione dipendente dall'esperienza di una duratura rappresentazione interna o una sua modificazione. La durata abbraccia un ambito temporale compreso tra pochi secondi e un arco di vita. La memoria è la ritenzione e il recupero di tale rappresentazione interna. La neurobiologia ritiene che il comportamento sia un prodotto del sistema nervoso e quindi sia importante la comprensione della struttura e delle proprietà del substrato neuronale. Naturalmente le rappresentazioni interne possono essere trattate come entità formali indipendentemente dalla struttura fisica nella quale sono implementate. Tuttavia, la neurobiologia ritiene che la capacità di codificare le rappresentazioni interne si sia evoluta parallelamente al sistema nervoso e che quest'ultimo ne determini le modalità. Quindi per il neurobiologo lo studio dell'apprendimento e della memoria consiste nell'identificare i substrati neuronali che sono alla base delle rappresentazioni interne e nell'analizzare i cambiamenti in essi prodotti all'esperienza. L'apprendimento e la memoria possono essere analizzati a differenti livelli di complessità organizzata. Il più alto è quello dell'organismo in toto; in questo caso l'organismo, o meglio il suo sistema nervoso, viene considerato come una scatola nera e l'apprendimento è inferito dalle relazioni ingresso-uscita (stimolo-risposta). A livello del circuito si analizza la funzione di una specifica parte o circuito del sistema nervoso nel processo di apprendimento. A livello cellulare si analizza la funzione della cellula e delle sue connessioni. Infine, a livello molecolare si studiano gli eventi biofisici e biochimici associati all'apprendimento e alla memoria. Tale procedura metodologica d'indagine va sotto il nome di «approccio riduzionistico costitutivo» e consiste, appunto, nel processo di analisi di un fenomeno complesso scomponendolo nelle singole parti. Nelle procedure proprie del riduzionismo costitutivo è da individuarsi anche l'utilizzo di metodologie semplificanti, che peraltro non modificano il livello dell'analisi in corso. Ad esempio, utilizzare il sistema nervoso di un mollusco, che contiene qualche migliaio di neuroni, anziché quello di un vertebrato, è una procedura semplificante che mantiene lo stesso livello di analisi. La ricerca moderna sull'apprendimento e sulla memoria poggia le sue fondamenta nell'ultima parte del XIX secolo. Parafrasando H. Ebbinghaus, si può dire che la neurobiologia della memoria ha un lungo passato ma una storia breve. In questa breve storia si riconoscono tre momenti chiave: 1) l'introduzione della metodologia di quantificazione dell'apprendimento; 2) il riconoscimento che le capacità mnemoniche sono filogeneticamente presenti nella scala zoologica; 3) l'utilizzo di modelli animali. Il primo lo dobbiamo a Ebbinghaus, che mise a punto un metodo per la misura dell'acquisizione e della capacità di ricordo dell'uomo. Il terzo momento chiave è conseguenza del secondo: la capacità di memoria degli animali era ben nota già molto tempo prima che gli psicologi incominciassero a studiarla, ma lo sviluppo della ricerca e dello studio sistematico nasce in seguito alla formulazione della teoria dell'evoluzione. Le specie, comprese quella umana, condividono struttura e meccanismi con quelle filogeneticamente più antiche. Non vi è differenza fondamentale tra l'uomo e i mammiferi pili evoluti per quanto riguarda le facoltà mentali; le capacità mentali di questi ultimi sono molto più elevate di quanto ci si attende. Il XIX secolo vide un fiorire di studi atti a evidenziare le capacità mentali degli animali. Inizialmente gli studi di psicologia animale erano essenzialmente di tipo aneddotico e basati non già su un rigoroso criterio sperimentale ma piuttosto sulla tradizione orale. I dati raccolti erano di tipo descrittivo e qualitativo e l'interpretazione non certo rigorosa. Isolati e rudimentali esperimenti di quantificazione sia delle procedure di apprendimento che di misura delle prestazioni psicologiche in specie animali furono eseguiti da numerosi ricercatori. Ma furono I. Pavlov ed E. Thorndike a inquadrare scientificamente sia i metodi di apprendimento che la valutazione delle prestazioni mnemoniche negli animali. Più o meno contemporaneamente si assiste a importanti sviluppi sul fronte della neuropsicologia clinica. Th. Ribot, S. Korsakov e J. H. Jackson pubblicano lavori fondamentali sulle sindromi comportamentali conseguenti a lesioni cerebrali, descrivendo specifici disturbi mnemonici. Contemporaneamente gli studi di neuroanatomia, elettrofisiologia, farmacologia rivoluzionano la conoscenza della struttura e funzionamento del sistema nervoso. Di pari passo agli studi clinici e comportamentali alcuni autori incominciarono a speculare sulle basi fisiologiche dell'apprendimento, formulando l'ipotesi che un processo di crescita o cambiamento nel sistema nervoso fosse alla radice di questi fenomeni. Alla fine del secolo scorso si scopri che le cellule nervose mature non vanno più incontro a divisione cellulare e l'ipotesi che i neuroni potessero crescere e modificarsi sembrava una maniera ragionevole per spiegare la persistenza del ricordo. Questa idea di base è stata rimaneggiata molte volte, arrivando alla conclusione teorica che la capacità di apprendere e ricordare è null'altro che un caso specifico di un fenomeno generale: la plasticità neuronale. I neuroni possono cambiare strutturalmente e funzionalmente in maniera più o meno duratura. Poiché la persistenza è uno degli aspetti più peculiari dell'apprendimento, si crede che lo studio delle proprietà plastiche dei neuroni da un requisito fondamentale allo studio della neurofisiologia dell'apprendimento (Kandel e Spencer, 1968). La teoria plastici (o strutturale) della memoria si è ulteriormente modificata focalizzandosi sulla sinapsi come punto critico di modificazione. L’ipotesi neurobiologica attuale è che la memoria implichi un cambiamento più o meno duraturo del rapporto sinaptico tra i neuroni, sia attraverso una modificazione strutturale che mediante modificazioni biochimiche degli stessi. Tale ipotesi non ha la pretesa di spiegare completamente la capacità ili apprendere e ricordare. La plasticità sili aptica può essere solo uno dei possibili meccanismi che sottendono a queste funzioni del sistema nervoso. Quali che siano le definizioni della memoria e dell'apprendimento, allo stato attuale delle conoscenze la nostra comprensione è ancora così inadeguata che non possiamo scartare eventuali ipotesi e fenomeni che possono contribuire alla capacità di capire queste funzioni. La procedura metodologica adottata per vagliare l'ipotesi plastica della memoria e dell'apprendimento prevede le seguenti fasi: 1) definire il circuito neuronale che sottende alla modalità appresa; 2) localizzare il silo (o i siti) plastici nell'ambito del circuito identificato; 3) studiare a livello cellulare e biochimico i meccanismi responsabili della modificazione plastica. Negli ultimi trent'anni questa procedura ha dato i suoi frutti soprattutto in seguito all'impiego di animali dotati di un sistema nervoso meno complesso di quello dei vertebrati e di parti del sistema nervoso di mammiferi mantenute in vitro. Diverse sono le preparazioni sperimentali utilizzate allo scopo di analizzare a livello cellulare i meccanismi di apprendimento; tutte hanno come denominatore comune la relativa semplicità neuronale, così da permettere una descrizione dettagliata del circuito nervoso in esame. Nei vertebrati sono state studiate forme semplici di apprendimento e memoria procedurale. L'assuefazione del riflesso flessorio nel gatto, l'assuefazione e la sensibilizzazione della risposta di sobbalzo del ratto sono i paradigmi sperimentali più usati e i primi a essere analizzati. L'apprendimento per condizionamento viene studiato impiegando come modello la risposta tachicardica a uno shock elettrico nel piccione, la risposta di ammiccamento del gatto, e il riflesso nittitante del coniglio. Gli invertebrati come l’Aplysia, il gambero, l’Hemissenda, la limaccia, la drosofila, l'ape e il polpo vengono impiegati nello studio dell'assuefazione, sensibilizzazione, condizionamento classico. Nel polpo vengono studiate forme «più complesse» come compiti discriminativi e l'apprendimento per imitazione. Gli studi condotti sull’Aplysia, sul ratto, sul coniglio e altri animali condividono una metodologia comune, vale a dire l'analisi cellulare mediante tecniche fisiologiche e biochimiche. Un approccio più recente e metodologicamente diverso dal precedente è quello neurogenetico. Con questo termine possiamo intendere l'applicazione dei contenuti culturali e della tecnologia propri della genetica allo studio della neurobiologia. Tale metodo d'indagine si sta rivelando uno dei più promettenti per lo studio della neurobiologia dell'apprendimento. L'obiettivo principale della neurogenetica, almeno nell'intendimento degli scienziati che iniziarono, è quello di analizzare le componenti ereditarie del comportamento animale attraverso lo studio di mutanti specifici. Anche le funzioni cognitive possono essere analizzate seguendo la stessa strategia, come fu chiaramente compreso da Ch. Darwin e da F. Galton. I presupposti sono semplici: geni codificano per proteine che partecipano alla costituzione e al funzionamento del sistema nervoso, come ad esempio i processi di acquisizione, immagazzinamento e recupero dell'informazione. Mutazioni a carico di quei geni il cui prodotto sia particolarmente importante per queste funzioni porterà a una loro specifica alterazione. Il ruolo svolto da queste proteine si può determinare dallo studio comparato tra l'animale portatore della mutazione e il soggetto normale. La localizzazione cromosomica e le tecniche di clonaggio del gene permettono di identificare la proteina codificata. L'organismo più adatto agli studi di neurogenetica è la drosofila, il moscerino della frutta, ampiamente usato dai genetisti. La drosofila manifesta diverse forme di apprendimento come l'assuefazione, la sensibilizzazione, il condizionamento classico e operante, inizialmente studiate da W. Quinn. Il paradigma attualmente più usato consiste in un condizionamento attraverso il quale il moscerino evita un'odore se associato a una scossa elettrica. La prima linea di mutante dell'apprendimento è stata isolata nel 1976 e fu denominata dunce. La mutazione deve essere specifica, deve cioè interessare direttamente le varie fasi del processo di apprendimento, e quindi questi effetti devono essere distinguibili da effetti su altre funzioni dell'organismo eventualmente prodotti dalla mutazione in questione. Lo studio dell'apprendimento utilizzando l'approccio neurogenetico ha offerto un formidabile supporto allo studio molecolare del problema da quando, a partire dagli anni '80, è stato donato un certo numero di geni la cui mutazione causa anomalie nel processo di apprendimento. I risultati emersi sia dall'approccio cellulare che da quello neurogenetico hanno aspetti sorprendentemente comuni. Questa concordanza di risultati sta a indicare una linea organizzativa unica e conservata attraverso l'evoluzione dei meccanismi che permettono a un organismo di apprendere e ricordare. E’ esperienza comune che il ricordo può durare mesi, anzi una vita intera. In questo caso il ricordo non può basarsi su queste modificazioni evanescenti ma deve essere sostenuto da modificazioni durature. Ebbinghaus, basandosi su semplici test di apprendimento e di ritenzione nell'uomo, osservò che, nonostante la memoria a lungo termine fosse un'estensione di quella a breve termine, il decadimento della prima aveva un andamento temporale diverso dalla seconda, e ipotizzò che la memoria non fosse un processo unitario. W. James denominò queste forme temporalmente distinte rispettivamente «memoria primaria» e «memoria secondaria». G. Miiller e A. Pilzecker dimostrarono che la memoria primaria era molto più labile e molto più suscettibile all'inferenza retroattiva della secondaria. Il dato che il contenuto mnemonico a breve termine fosse pili facilmente cancellabile di quello a lungo termine era anche suffragato da osservazioni cliniche: traumi cranici, attacchi epilettici causano amnesia retrograda per esperienze che precedono l'evento patologico di un tempo più o meno lungo. Cessati gli effetti acuti si osserva che mentre i ricordi più lontani vengono completamente recuperati, la memoria dei fatti di poco antecedenti (minuti, ore secondo l'entità del trauma) è persa per sempre. C. P. Duncan (1949) studiò sperimentalmente gli effetti retroattivi delle stimolazioni elettroconvulsive sulla memoria. Egli osservò che la formazione del ricordo veniva impedita quando l'elettroshock veniva effettuato durante la seduta di apprendimento, mentre non vi era nessuna interferenza se veniva indotto diverse ore dopo la fase di apprendimento. Le osservazioni sopra riportate indicano che le due forme temporali di memoria, per quanto possano far parte di un unicum temporale, presentano una sostanziale differenza: labile quella a breve termine, resistente quella a lungo termine. Allo stato attuale delle conoscenze la spiegazione neurobiologica di questi attributi delle memoria a breve termine sta nel fatto che la memoria a breve termine è indipendente dalla sintesi proteica. Questo concetto deriva da esperimenti in cui durante la fase di apprendimento veniva somministrato all'animale un inibitore della sintesi delle proteine. In queste condizioni, il compito veniva appreso ma veniva annullata la capacità di ritenerlo per un lungo periodo. L'interpretazione di questi risultati appare lineare. Si ritiene che il substrato neurobiologico della memoria sia la modificabilità sinaptica. La memoria a lungo termine risulta essere dipendente da forme di plasticità sinaptica durature che necessitano, per istaurarsi, di cambiamenti dell'espressione genica e la sintesi di proteine necessarie a modificazioni strutturali e morfologiche e, per loro natura, di lunga durata, dei contatti sinaptici. Al contrario, le forme di plasticità sinaptica a breve termine, substrato della memoria labile, sarebbero indipendenti all'espressione genica, in quanto non richiedono la sintesi proteica. In base al turnover molecolare necessario all'attivazione genica e alla mobilizzazione delle proteine dal luogo di sintesi ai terminali sinaptici, la fase di memorizzazione indipendente dalla sintesi proteica dovrebbe durare qualche minuto. Non sempre tra neurobiologi e neuropsicologi vi è accordo sulla durata della memoria a breve termine. Dove e come vengono immagazzinati i ricordi sono domande che hanno ossessionato gli studiosi almeno fin dal XIX secolo. Tradizionalmente è possibile individuare due opposti punti di vista sulla «sede» del cosiddetto engramma. La visione della scuola del locazionismo, che prende le sue origini dall'organologia e dalla frenologia, è che la traccia mnestica è codificata in precise connessioni neuronali. Il punto di vista della scuola antilocazionista nasce come opposizione all'esasperazione frenologica di F. Gali e sostiene che la traccia mnestica è distribuita in maniera ampia ed equivalente in molti distretti del cervello; particolari neuroni e sinapsi partecipano solo in modo probabilistico all'immagazzinamento e al richiamo del contenuto mnestico. K. Lashley (1929), il più importante esponente di questa scuola, sottolineava l'« equivalenza funzionale» di tutte le parti della corteccia cerebrale nell'apprendimento e nella memoria. Il fatto che aspetti di plasticità sinaptica (come la facilitazione, il potenziamento, la depressione della trasmissione) siano implicati in forme di apprendimento e memoria può far propendere verso l'ipotesi antilocazionista, in quanto queste forme di modificazione sinaptica sono ampiamente riscontrabili a diversi livelli del sistema nervoso, dai recettori di senso alla corteccia associativa. Analizzato da questo punto di vista, ogni angolo del cervello sembrerebbe in grado di essere un magazzino mnestico. La risposta attuale al problema della «sede» dell'engramma può essere così riassunta: la traccia mnemonica è da considerarsi distribuita nel senso che non esiste un centro unico di memoria, e inoltre molti distretti del sistema nervoso partecipano all'immagazzinamento di una determinata informazione; nello stesso tempo, l'engramma può considerarsi localizzato, in quanto solo determinate strutture sono implicate nella codificazione mnestica di un certo evento e ciascuna di esse partecipa in maniera differente alla codificazione. Allo stato attuale delle conoscenze, solo in pochi casi si hanno informazioni abbastanza precise su dove sia da considerarsi il sito di archivio per un determinato evento appreso. Si tratta di quei pochi casi dove l'anatomia del circuito neuronale attivo durante la fase di apprendimento è conosciuta. A parte la sensibilizzazione nell’Aplysia, questi casi «fortunati» sono forme relativamente semplici, come l'assuefazione della risposta di sobbalzo nel ratto, l'adattamento del riflesso vestibulo-oculare, il condizionamento classico della risposta tachicardica del piccione e di ammiccamento del gatto, e tipi di apprendimento più complesso quali l'apprendimento di discriminazione visiva nel ratto, gatto e scimmia, l'apprendimento del canto negli uccelli e l'imprinting nel pollo. Dagli studi effettuati su questi aspetti è emerso che la memoria è immagazzinata nell'ambito del sistema neurale che è deputato all'analisi dell'informazione da memorizzare. Nell'apprendimento complesso come quello di discriminazione visiva l'informazione appresa è certamente immagazzinata anche nella neocorteccia infero-temporale, dove parti diverse hanno diversa importanza funzionale nell'immagazzinamento. Spostandoci da queste considerazioni di base e analizzando la memoria cosciente dell'esperienza soggettiva umana, la topografia della memoria assume un aspetto sorprendentemente differente. Fin dai classici studi di Ribot e Korsakov è stato evidenziato che traumi o malattie cerebrali possono talvolta determinare un disturbo molto circostanziato: l'amnesia. Tale disordine è limitato alla funzione di apprendimento e di memoria e non altera altre funzioni cognitive come l'attenzione, la percezione e in generale le funzioni intellettive. Tale selettività deriva dal fatto che l'amnesia non è la conseguenza di una lesione di un distretto nervoso che partecipa all'elaborazione e all'immagazzinamento dell'informazione. Infatti il paziente amne-sico ha una memoria a breve termine normale, come pure è normale la sua memoria remota. Lo studio dei pazienti amnesici ha rivelato che le strutture lese svolgono una funzione che non ha a che fare con l'acquisizione e l'archivio dell'informazione, bensì il loro ruolo sarebbe di contribuire all'immagazzinamento senza essere peraltro sito di archivio. Le sindromi amnesiche sono provocate da processi patologici che colpiscono la parte mediale del lobo temporale, o le porzioni mediali del diencefalo, entrambe le strutture ascrivibili al circuito limbico. Molteplici sono i quadri eziologici: dal trauma cranico all'encefalite erpetica, dagli accidenti vascolari all'anossia, dall'intossicazione etilica cronica alla terapia elettroconvulsiva e all'asportazione chirurgica della parte mediale del lobo temporale in caso di tumori o di gravi forme di epilessia. Generalmente parlando, l'entità e la localizzazione della lesione determinano il profilo amnesico: lesioni bilaterali causano un'amnesia globale, lesioni dell'emisfero sinistro causano deficit a carico della memoria di materiale verbale, quelle dell'emisfero destro a carico della memoria di materiale visuo-spaziale non verbale. Sebbene vi possano essere differenze nel quadro clinico tra l'amnesia globale medio-temporale e quella diencefalica, queste differenze rappresentano diversi gradi di lesione dello stesso sistema funzionale e non giustificano una reale dicotomia tra il sistema medio-temporale e quello diencefalico. Lo studio delle amnesie, oltre ad aver rivelato l'esistenza di strutture nervose che non sono siti di immagazzinamento a lungo termine ma contribuiscono ad esso, ha portato alla concezione che la memoria a lungo termine non è un fenomeno unitario ma può essere diviso in almeno due sottotipi: la memoria dichiarativa e la memoria procedurale (Squire, 1994). La memoria dichiarativa o esplicita, divisibile a sua volta in un tipo episodico e in un tipo semantico, è direttamente accessibile alla coscienza, può essere descritta a parole e concerne il vissuto storico individuale (forma episodica) oppure la conoscenza del mondo in generale (forma semantica). Al contrario, la memoria procedurale o implicita non è direttamente accessibile alla coscienza e non può essere descritta a parole in termini di fatti, dati specifici ed eventi ben localizzati nel tempo e nello spazio. E’ la memoria che si forma in modo automatico e ampiamente inconscio tramite pratiche motorie o percettive ripetute molte volte. Essa include anche la conoscenza implicita di regole applicate continuamente, come quelle della grammatica. Danni al sistema limbico che includono la parte mediale del lobo temporale o strutture mediali diencefaliche interferiscono con la funzione mnemonica dichiarativa senza intaccare apprezzabilmente il processo di memoria procedurale. Ad esempio un individuo amnesico in seguito a una lesione bilaterale della parte mediale del lobo temporale impara perfettamente un complesso compito motorio senza peraltro ricordarsi delle ripetute sessioni durante le quali ha appreso l'esecuzione del compito stesso (Milner et al., 1968). Una domanda che nasce a questo punto riguarda la dislocazione dell'engramma nel complesso sistema della memoria dichiarativa. Le prove sperimentali sono a favore dell'ipotesi che gli archivi siano nelle cortecce associative. In assenza di un sistema limbico funzionante, l'informazione può essere ritenuta e recuperata solo per pochi secondi dopo l'acquisizione. Si può ipotizzare che successivamente il sistema limbico diventi un nodo importante delle rete che codifica una specifica rappresentazione. Se così fosse, una stimolazione di strutture limbiche dovrebbe determinare un recupero artificiale dell'informazione. Questa ipotesi potrebbe spiegare le immagini mentali evocate in pazienti durante gli esperimenti di stimolazione descritti da W. Penfield (1963). Esperimenti di registrazione dall'ippocampo e dal complesso amigdaloideo in corso di preparazione di interventi neurochirurgici volti alla rimozione di focolai epilettici hanno dimostrato l'esistenza di neuroni la cui attività elettrica veniva specificamente modulata dalla presentazione di volti e parole. I dati ricavati dallo studio dei pazienti amnestici indicano che il ruolo del sistema limbico nel processo di ritenzione e richiamo è temporaneo. Pazienti con amnesia grave sono in grado di ricordare fatti ed eventi avvenni i molto tempo prima dell'inizio dell'amnesia, fatti ed eventi che a suo tempo richiesero l'attività del sistema limbico per essere consolidati. Milner (1989), Alvarez e Squire (1994), McClelland e collaboratori (1994) I ialino proposto un modello operazionale del funzionamento della parte mediale del lobo temporale nel processo di memorizzazione del contenuto dichiarativo. Il sistema limbico, e in particolare la parte mediale del lobo temporale, serve solo come serbatoio temporaneo, in quanto l'immagazzinamento definitivo ha luogo nella neocorteccia. L'evento chiave della formazione dell'archiviazione e del recupero dell'informazione dichiarativa è ascrivibile all'interazione tra siti neocorticali tra loro fisicamente separati e il lobo temporale mediale. La neo-corteccia e le cortecce peririnale, entorinale e paraippocampale comunicano reciprocamente e le basi anatomiche di questa reciproca relazione sono state descritte (Amaral, 1987). Il consolidamento, secondo il modello, consisterebbe in un processo di graduale connessione funzionale delle aree separate che complessivamente contengono la rappresentazione dell'evento dichiarabile. Queste graduali connessioni tra aree di neo-corteccia separate sarebbero causate dalla loro coattivazione dovuta all'attività sincronizzante della corteccia mediale del lobo temporale e dalla ripetuta attivazione simultanea da parte della sezione mediale del lobo temporale. Sebbene il substrato neuronale del processo di consolidamento non sia al momento conosciuto, si può pensare il io esso consista in modificazioni funzionali e morfologiche a carico delle connessioni sinaptiche analoghe a quelle descritte nei modelli sperimentali semplici visti precedentemente. Meno conosciuti sono i sistemi neurali responsabili dell'archivio a lungo termine della forma procedurale della memoria. M. Mishkin e collaboratori (1984) furono i primi a proporre che i gangli della base e le connessioni cortico-striatali avessero un importante ruolo funzionale nell'acquisizione e nell'immagazzinamento dei contenuti procedurali. I dati in qualche modo a sostegno dell'ipotesi sono ricavabili sia da lesioni sperimentali eseguite in animali (Phillips e Carr, 1987) sia dallo studio clinico di pazienti affetti dalla malattia di Huntington e dal morbo di Parkinson. Tuttavia, per quanto suggestiva, questa ipotesi è stata recentemente criticata alla luce dei dati riportati in letteratura (Wise, 1996). Risulta infatti molto complesso stabilire in modo inequivocabile se l'alterazione osservata sia ascrivibile a un deficit di memoria o a un deficit motorio. Sono da considerarsi strutture implicate nell'acquisizione e immagazzinamento della memoria procedurale la corteccia cerebellare ed i nuclei cerebellari. I dati a favore di questa ipotesi sono ricavabili dall' analisi sperimentale condotta in modelli animali su paradigmi quali l'adattamento del riflesso vestibulo-oculare del gatto, l'assuefazione a lungo termine della risposta di sobbalzo del ratto e il condizionamento del riflesso di ammiccamento della membrana nittitante nel coniglio. PIER GIORGIO MONTAROLO |